Brussellando del 21 aprile 2009

Puntata dedicata all'oralità e alla poesia. Mari D ne discute con Mimmo Grasso, ospite telefonico dall'Italia. Mimmo ha descritto con dovizia di dettagli ed aneddoti l’evolversi della parola fino ai giorni nostri, sottolineandone l’influenza straripante ed ineluttabile dovuta alle nuove tecnologie. Straordinario percorso e conferma, che la parola, nonostante tutto, è ancora il perno di tutte le relazioni quotidiane. Mimmo, infine, ci ha regalato una coinvolgente e speciale tammurriata.
Sullo sfondo, una ricchissima agenda culturale, Fiordaliso ha regalato tante perle di oralità estrapolate dalla migliore tradizione letteraria europea
Paolo & Stefano hanno proposto un’avvincente selezione di brani jazz.
Brussellando saluta per l’occasione anche Bianca Madeccia.
Regia di Dani M
[Buon ascolto]

(Foto: spazioparaggi.it )

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1 commento:

Radio Alma ha detto...

ORALITA’ E POESIA (appunti)


Stabiliamo i criteri di analisi in modo chiaro, anche per farci capire da chi ci ascolta, tanto più che, con la radio, ricorriamo appunto all’oralità.

Per oralità dobbiamo intendere un modo di comunicare molto strutturato. Non è dunque, un chiacchierare, un talk show., che pur richiedono una tecnica, cioè una competenza finalizzata alla comprensione.
“Poesia orale” indica una modalità –artistica- di comunicazione formale sul versante sonoro, cioè della voce e del suono, finalizzata alla condivisione delle esperienze. Queste esperienze devono essere riconoscibili, a rischio anche di ciò che a un poeta che usa la scrittura sembra generico.
La poesia orale sempre avuto un suo pubblico e suoi metodi di trasmissione. Ad esempio, in Africa l’izibongo zulu è un canto di lode che deve aver luogo in circostanze attese, rituali, e deve essere cantato senza sbagliare le formule metriche e le parole in quanto, in caso contrario, la parola e il canto non avrebbero efficacia. E’, per intenderci, come le formule di un canto gregoriano o di una funzione religiosa da noi.

Oggi assistiamo a un’oralità di ritorno grazie alla tecnologia, e i suoi sviluppi non sono prevedibili. Va considerato che solo i poeti, storicamente, sono i possessori e i creatori della lingua. Per lingua intendo una modalità cognitiva globale che si esprime attraverso suoni il cui significato è arbitrario.
Ad esempio, “tavolo” non è necessariamente il tavolo che vedo e che posso disegnare per far capire ciò che intendo designare a un cinese che non conosce la mia lingua.
L’abbinamento tra suono e immagine è successivo, è un fatto storico del linguaggio, ed è stato generato quando la scrittura, inizialmente usata per calcoli computistici di derrate alimentari e capi di bestiame, divenne un sostegno per la memoria.
L’apprendimento, infatti, era solo affidato alla memoria orale.
Forse ho usato una parola difficile: “modalità cognitiva”. E’ opportuno spiegarmi con un esempio.
Se io elenco quattro oggetti, “sega, martello, accetta, albero” e chiedo di dirmi chi è l’intruso, mi si risponderà o “martello” o “albero”. Nell’un caso, “martello”, avremo ragionato secondo l’esperienza (oralità, appunto); nel secondo, “albero”, avremo elaborato un ragionamento astratto.
Questo è uno dei tests somministrati dallo scienziato russo Luria ad alcuni contadini kazaki. Quasi tutti risposero “martello”, perché non serve per tagliare l’albero. Cioè non ha riscontro nell’esperienza quotidiana, nel fare. Non a caso le civiltà contadine sono quasi tutte orali. Penso, ad esempio, all’area vesuviana e ai suoi tammurrari, veri depositari di una tradizione arcaica, di uno stile formulaico. Penso anche che Parry, l’americano che capì l’inesistenza di Omero e che per dimostrarlo studiò sul campo i canti dei rapsodi yugoslavi degli inzi del 900, avrebbe riconosciuto queste stesse formule nei tammurrari del Vesuvio e della Campania in generale, così come nei poeti in rima d’ottava o in quelli sardi o siciliani che si sfidano, si rispondono “per le rime”.
Ciò richiede una straordinaria abilità, un mestiere riconosciuto dalla comunità che sta attenta, nell’ascolto, alle minime variazioni di tono, veri e propri segnali, alla coerenza tra canto e metro, parola e gesto e che si aspetta proprio ciò che a noi sembrerebbe superfluo. E’ la memoria del popolo che si aspetta questo, come fa il bambino quando gli racconti una fiaba. Per lui è un rito, un culto, deve fissare tutto nella memoria e guai a sbagliare: ti fa ripetere tutto daccapo.
Così funziona la mente orale. Del resto, quando dialoghiamo non ricorriamo a periodi ipotetici, ipotassi, e tante altre cose. Il linguaggio ipotattico è strutturato sulle antiche azioni della caccia. In genere quando parliamo a tu per tu noi usiamo la paratassi, come nella Bibbia, pensiamo seguendo il flusso di immagini, senza scala gerarchica, organizzato nativamente con “e”…”e”, “… e dio…e fece…e…e…”.


Altresì, l’oralità si fonda su stilemi che non troverebbero accoglienza nella poesia scritta per cui, ad esempio, un giovane sarà sempre “bello e valoroso”, una principessa “bionda e con le trecce d’oro”, il Partito Comunista sarà sempre “glorioso” mentre uno di destra sarà “Cattolico apostolico romano”, ecc.
Sono cose che istintivamente i politici conoscono bene e ne comprendono gli effetti. Ciò che a noi sembrano banalità sono per loro un tesoro nascosto (purchè non si dica che “il re è nudo”). Certo, ciò comporta manipolazione. Ma quando non è stato, in politica, così? Ricordiamo la retorica? Il “probare, delectare, flectere” di Cicerone?

Distinguiamo tra civiltà a oralità primaria (totale non conoscenza di scrittura) e secondaria (si conosce la scrittura).
In ambedue le civiltà esiste la poesia. Nell’una ha una funzione sociale molto forte e precisa. E’ anche filosofia, matematica, scienza. Il poeta è l’enciclopedia il tribunale morale e la biblioteca della sua comunità.
In civiltà che conoscono la scrittura ma ricorrono a forme orali di espressione poetica (penso ad esempio ai trovatori) la questione riguarda forme espressive sottoposte alle regole dell’esecuzione
pubblica. La lettura in solitudine era impensabile. I manoscritti antichi, con quelle lettere tutte maiuscole e senza interpunzione, servivano per letture ad alta voce, e insieme con altri, visto che il libro era un genere di lusso estremo.
Internet è paragonabile, ad esempio, alla biblioteca di Alessandria. Faccio un altro esempio. Tutti, più o meno, sanno scrivere. Ciò significa che sanno organizzare pensieri astratti prelevando le informazioni dalla memoria. Ma come ci sentiamo davanti a uno spartito musicale? Sappiamo cos’è ma non sappiamo leggerlo. Ci sentiamo analfabeti. Lo stesso vale per la matematica quando non si tratti delle operazioni elementari.

Bene. La poesia è nata perché si aveva bisogno di trasmettere le esperienze (come si semina, ad esempio, come si costruisce una nave, a quale dio tributare culto, cosa bisogna fare in varie circostanze).I proverbi, formule orali pure, sono il residuo di questa cultura. Per trasmettere le esperienze, in varie situazioni e momenti, in genere cultuali, si doveva possedere una conoscenza enciclopedica. Omero è un enciclopedista anche morale. Quando parla della forza di un eroe, sta dicendo ai suoi ascoltatori che, in certe circostanze, quello è il modello da seguire. Ci si comporta come Ettore o Achille in quelle situazioni. Le molte digressioni o similitudini, hanno una funzione didattica: un arco si fa così e cosà, uno scudo in questo modo e con questi materiali, ecc.
Il ritmo del verso e la musica aiutavano non poco la memorizzazione. Altrettanto le immagini legate alle parole e ai suoni, altrettanti “segnali”. Quintiliano, con la Rhetorica ad Herennium, ci dà il primo trattato di mnemotecnica, utile fino a Giordano Bruno e che viene ancora utilizzato in alcuni corsi anche di management.

E’ chiaro come e perché Platone nella Repubblica, che è un lavoro pedagogico e non politico, tenesse alla larga i poeti. Erano, in effetti, dei mimi o, meglio, avevano elaborato tecniche essenzialmente mimetiche e si sa come la pensava il greco su questa questione della mimesi.
C’è una grande questione in Platone. Nel Fedro esalta la memoria e l’oralità. Nella Repubblica
sembra condannarla. Ma lui scriveva, sotto forma di dialogo, dunque una modalità dell’oralità, una specie di innesto tra oralità e scrittura, quella che i poeti africani sub sahariani di oggi chiamano “oralitura”, e sa che sta rifondando tutto l’umano, tutte le conoscenze, attraverso il primo autentico pensiero filosofico, quello nato dalle ceneri dei sofisti. I poeti di allora e i sofisti avevano lo stesso metodo manipolatorio. Platone sta elaborando un metodo al quale tutti dobbiamo moltissimo, più che ad Aristotele.

Analogamente i trovatori, quelli che Pound ed Eliot amavano, elaboravano canzoni a lasse di vario tipo, strettamente connesse con la musica e la melodia. Tralascio qui le questioni astrologiche connesse con parola e melodia. Non c’è stata scuola poetica più ricca e consapevole di quella provenzale, abile sia nel trobar clus, il poetare chiuso, ermetico, per entrare nel quale c’era bisogno, a parte la conoscenza di particolari “segnali” o codici indicativi, sia nel trobar lus, il poetare facile. Facile, non “semplice”.
Ce n’è uno, Rimbaut D’Aurenga, che scrive una chanson sul trobar clus e lus e i critici si sono accapigliati sulle priorità dell’una forma rispetto all’altra dimenticando che chi scrisse quei versi era una persona che, in sostanza, dimostrava che, come poeta, sapeva essere sia “orale” che “scritturale”.

Oggi assistiamo a un’oralità di ritorno, come si dice, grazie alla tecnologia. Basti pensare a come i giovani si scambiano messaggi: è una forma parlata-scritta, con abbreviazioni tipo scritture beneventane.

Il grande patafisico Queneau già affrontò la questione da par suo, a proposito del francese parlato-scritto.

La poesia oggi ha recuperato, sia pure in ambienti ancora di nicchia, l’oralità e le sue competenze. Penso a Gianni Fontana, a Lello Voce, Ariele D’Ambrosio.
La grande critica, come Zumthor, hanno rielaborato e rivalutato le forme dell’oralità per il semplice fatto che la poesia scritta sembra un surrogato di quella orale.
Un esempio che ci riguarda può essere l’Inno di Mameli.

(esempio…..)

E qui entriamo direttamente nel ruolo che il poeta ha nella società, affrontiamo la questione etica.
Io partecipo a molti reading di poesia e mi sono sempre chiesto, sgomento, per quale motivo uno spettatore dovrebbe,magari pagando un biglietto, stare a soffrire ascoltando uno che lo annoia a morte blaterando sui suoi dolori di pancia.
Il poeta ha dimenticato come si comunica e perché. E’ molto solipsista, da un lato; dall’altro ha la presunzione di essere un unicum, un rivoluzionario, dimenticando che la rivoluzione si fa con gli altri, magari seguendoli e inseguendoli; non solo. Non capisco in che consista questa sua presunta rivoluzionarietà nel momento in cui la pratica pubblicando con grandi case editrici, di destra o sinistra, serve i padroni e raccatta premietti che il sistema elargisce perché stia tranquillo e allineato.
Sciocchezze, leggende metropolitane. Se un griot dicesse queste cose sarebbe preso a frustate dai suoi ascoltatori.
La questione è che il poeta, e per sua responsabilità, ha perso il contatto con il suo popolo. Nonsa più comunicare o, confondendo la poesia con il metodo critico, applica il metodo d’analisi ai versi, al suo voler dire, generando incomprensibilità.
Per capirci: “Gli orecchini” di Montale sono un testo straordinario che comunicano comunque qualcosa al lettore o ascoltatore. Come e perché riguarda cose che qui non è il caso di discutere.
Il testo è molto bello e lo è ancora di più se un D’Arco Silvio Avalle, cioè un filologo e storico, un medievalista, lo analizza regalandoci molte sorprese. Ma tutto è contenuto nel testo. Si assiste invece, e molto spesso, a poesia elaborata come critica, non comunicabile e non condivisibile, che evidenzia ed ostenta ciò che dovrebbe restare nascosto, che lavora per addizione mentre il segreto è sottrarre. Insomma cose senza effetto né per l’emozione né per l’intelligenza.